Quando gli Euro censurano Lavoisier

Da una protesi dentaria mal fatta alla scoperta della pericolosa nocività delle nanoparticelle

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    NANOPARTICELLE. Quando gli Euro censurano Lavoisier. Da una protesi dentaria mal fatta alla scoperta della pericolosa nocività delle nanoparticelle: Stefano Montanari ci “racconta” la storia di una verità scientifica scomoda e degli interessi economici che mirano a tenerla celata
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    Quando gli Euro censurano Lavoisier. Da una protesi dentaria mal fatta alla scoperta della pericolosa nocività delle nanoparticelle: Stefano Montanari ci “racconta” la storia di una verità scientifica scomoda e degli interessi economici che mirano a tenerla celata
    di Stefano Montanari – tratto da CONSAPEVOLE 13 www.ilconsapevole.it
    Da una protesi dentaria mal fatta alla scoperta della pericolosa nocività delle nanoparticelle: Stefano Montanari ci “racconta” la storia di una verità scientifica scomoda e degli interessi economici che mirano a tenerla celata
    Ciò che accadde nel laboratorio della dottoressa Gatti, mia moglie, a fine 1997 non era, in fondo, altro che la correzione di una svista, magari anche clamorosa, in cui la medicina era incorsa.
    Si era presentato al Policlinico di Modena uno di quei pazienti che per i medici sono una seccatura: una serie di sintomi apparentemente senza connessione reciproca, dalla lacrimazione di un occhio all’emicrania ad una febbre che andava e veniva, fino ad una funzionalità del fegato compromessa e a dei reni che proprio non ne volevano sapere di funzionare, tanto che la previsione di un trattamento cronico di emodialisi non lasciava spazio ad altre possibilità. Il tutto andava avanti da più di otto anni. Si tentò una diagnosi: le biopsie di fegato e rene dimostravano la presenza di una granulomatosi, vale a dire una disseminazione in quegli organi di focolai infiammatori, ma sulla causa nessuno era capace di pronunciarsi. La febbre e gli altri sintomi, poi, restavano del tutto misteriosi.
    Scoperta “casuale”, conseguenze fastidiose
    Per un caso fortuito, quelle biopsie capitarono al Laboratorio dei Biomateriali e mia moglie le trattò non da medico, quale non è, ma da fisico e bioingegnerie quale è, mettendole sotto un microscopio elettronico. Lì dentro, in quei tessuti ammalati “sine causa” – il che, nel gergo medico, non significa che la causa non c’è, cosa di per sé insostenibile, ma che non ci si è capito nulla – lei ci trovò un’infinità di granelli minutissimi di materiale inorganico. Una sua indagine ulteriore rivelò come quel materiale fosse una ceramica e, incontrando il paziente, ci si accorse che questo portava da nove anni una protesi dentaria talmente malfatta da essersi consumata in maniera vistosa. Un piccolo prelievo da quell’impianto mostrò senza ombra di dubbio che ciò che stava nei tessuti erano particelle proprio di quella stessa ceramica. A questo punto il ragionamento era semplice: il paziente si era mangiato un po’ di protesi e quel materiale era finito nel fegato e nei reni. Se, poi, si aggiunge che, tolta la protesi e sostituita con un’altra fatta come si deve, e trattato il paziente con dei cortisonici, cioè degli antinfiammatori, il caso si era risolto – febbre e lacrimazione comprese ed emodialisi evitata – ecco che era difficile avanzare dubbi sul meccanismo di patogenesi.
    E invece non fu così.
    Il nostro corpo elimina tutto?
    A rigor di logica, tra le varie caratteristiche della scienza ci dovrebbero stare l’oggettività e l’onestà intellettuale di chi la scienza la pratica. Qualche volta, e mi auguro che accada spesso, queste condizioni sono soddisfatte, ma quando entrano in ballo interessi che con la scienza non hanno nulla a che fare – anche se della scienza si servono – le cose possono cambiare.
    Nel nostro caso, se il ragionamento tiene, significa che le particelle inorganiche non biodegradabili che introduciamo nell’organismo non sono eliminate o, almeno, non lo sono del tutto, e, addirittura, una volta imprigionatevi fanno guai. Se, poi, a questo si aggiunge il fatto – osservato poco dopo e confermato da altri centri di ricerca – che queste polveri sono ubique, che si comportano più o meno come gas in atmosfera e che, inalate, passano nel sangue entro poche decine di secondi da dove, in qualche decina di minuti, s’introducono in tutti gli organi innescando reazioni da corpo estraneo, la cosa diventa imbarazzante.
    Chi non è addetto ai lavori si chiederà che cosa possa destare imbarazzo in una scoperta apparentemente tanto banale e, in fondo, ovvia. È presto detto. Se ci riferiamo al nostro primo caso, quello della protesi dentaria, un tipo d’indagine come il nostro può essere fastidiosa per un dentista che non ha lavorato a regola d’arte. Sempre restando all’ingestione, non è raro che polveri inorganiche molto fini e non biodegradabili come il talco o il silicato d’alluminio siano aggiunte ai farmaci per fare da eccipienti o, come accade per il biossido di titanio, a certi alimenti per migliorarne l’aspetto e la conservabilità. Ma nessuno si è mai dato la pena di fare un bilancio tra ciò che s’introduce e ciò che dal corpo viene eliminato, dando per scontato – per una sorta di tradizione accolta, ad essere onesti, molto poco scientificamente senza dimostrazione – che ciò che il corpo non elabora lo elimina. Ma se ci si sposta su quanto s’inala involontariamente, le cose diventano ancora più delicate.
    E l’uomo produsse le polveri
    La Natura è una produttrice di polveri inorganiche non biodegradabili: i circa 1.500 vulcani attivi, le rocce che sono erose dai fattori atmosferici e la sabbia del deserto che riesce a volare per migliaia di chilometri, sono gli esempi più classici che di solito si portano. Di contro ci sta l’Uomo, produttore pure lui di particelle. Per rendersi conto delle differenze tra i due accusati, occorre sapere che qualsiasi combustione, senza poterne escludere nessuna, genera con diversi meccanismi particelle inorganiche, e che da un po’ meno di tre secoli l’Uomo ha scoperto come bruciare a buon mercato, cosa che per centinaia di migliaia di anni gli era stata preclusa, ricavandone energia. L’avanzare della tecnologia – da non confondersi con il progresso che è ben altro – ha consentito di accedere via via più facilmente a temperature sempre più alte e questa possibilità è stata sfruttata in mille maniere. Tutto questo, però, senza tener conto degli effetti collaterali.
    Per la maggior parte della nostra storia noi, gli unici animali che producano rifiuti, abbiamo gettato le nostre scorie nell’ambiente. Eravamo in pochi, quei pochi consumavano con parsimonia e la Terra era abbastanza grande da lasciar passare quasi inosservata questa forma d’aggressione. Prima lentamente, poi con un’accelerazione ormai diventata fuori controllo, il nostro numero è aumentato a dismisura e ci siamo illusi – anche in questo caso al di là di ogni scientificità – di poter continuare con le antiche abitudini, senza renderci conto che ognuno di noi produce centinaia di volte più rifiuti di chi ci aveva preceduti e che le tecniche di produzione di quei beni di cui ci serviamo per un attimo (per poi buttarli) producono a loro volta scorie. E lo fanno in quantità immensa, insopportabile per il pianeta. Così, si è arrivati a produrre polveri non solo di qualità ben diversa e in quantità infinitamente maggiori di quanto non faccia la Natura, ma anche molto più sottili, tanto da poter entrare nel nucleo delle nostre cellule.
    Il gioco di prestigio degli inceneritori
    A questo punto, invece di fermarci per un attimo e fare il punto della situazione usando la scienza e una sua sana applicazione tecnologica, abbiamo compiuto un’altra follia. Sommersi come siamo dalla nostra immondizia, non abbiamo pensato di mettere in atto correttivi – e ce ne sono a bizzeffe – ma abbiamo continuato imperterriti a comportarci come quei bambini viziati che siamo e a chiuderci gli occhi: abbiamo escogitato gl’inceneritori. Si prendono i rifiuti, li si brucia, e questi non ci sono più. Bellissimo, comodissimo, se non si trattasse del più ingenuo e costoso dei giochi di prestigio.
    Il mondo è fatto in un certo modo, un modo che non abbiamo deciso noi, ma su cui c’è poco da discutere. E tra le leggi che regolano il mondo c’è il cosiddetto Principio di Conservazione della Massa, noto fin dal 1786 quando un tale Antoine Lavoisier dimostrò la sua esistenza, un’esistenza di cui qualche filosofo greco del quinto secolo prima di Cristo si era già accorto. Riassumendolo in poche parole, questo scomodo pilastro della scienza dice che, in un sistema chiuso, la quantità di materia totale resta costante. Il che significa che, se io brucio i rifiuti nell’inceneritore, dalla bocca del camino mi uscirà esattamente quanto ho bruciato. Un’aggravante è che la tecnica dell’incenerimento prevede l’aggiunta di grandi quantità di sostanze come bicarbonato, calce, ammoniaca ed acqua a ciò che si va a bruciare, con il risultato che per ogni tonnellata di rifiuti immessi, il camino ne emette due.
    La scienza e l’interesse economico
    Ma c’è qualcos’altro: il processo di combustione dà origine a sostanze incomparabilmente più tossiche di quelle che si vorrebbero eliminare e a polveri tanto più fini quanto più è alta la temperatura del processo. E allora, perché una tale assurdità che non ha un piede su cui reggersi dal punto di vista scientifico? Semplicemente perché all’incenerimento dei rifiuti sono legati interessi miliardari (in Euro) e per questi vale la pena di censurare Lavoisier o di affermare grottescamente che esistono filtri miracolosi che fermano tutto ciò che esce dal camino. Il che è i contrasto con i fatti, dato che i filtri arrestano appena una minima percentuale di quelle polveri (le cosiddette polveri filtrabili e non le condensabili o le secondarie, questo sia detto per i tecnici) e che le leggi della Natura non sono modificabili. Né mai si dice che quel poco che il filtro ha arrestato deve poi essere messo da qualche parte e la soluzione è immetterlo di nuovo nell’ambiente. E non si dice che le ceneri che costituiscono più o meno un terzo in massa dei residui e che vengono trasferite nelle discariche sono tutt’altro che inerti, come, invece, si vuol far credere, ma sono estremamente volatili e provocano tutte le reazioni da corpo estraneo di qualsiasi polvere inorganica non biodegradabile. Da ultimo, per giustificare l’assurdità, si è sostenuto che questi impianti producano energia dai rifiuti. Questo senza fare i calcoli fino in fondo, perché, se i calcoli si facessero, nella più rosea delle ipotesi risulterebbe che per produrre un watt in quel modo se ne consumano almeno tre.
    Non solo rifiuti: la medicina e la guerra
    Insomma, i conti si presentano sempre a metà. Cosa che accade anche in medicina, dove miliardi di Dollari (o di Euro) sono stati investiti in tecniche che impiegano particelle costruite in laboratorio per essere iniettate nei pazienti a fini diagnostici o come trasportatori di farmaci. Che sorte avranno quelle particelle – che l’organismo non è capace di eliminare e che sono dei corpi estranei – non pare essere oggetto d’interesse: il denaro investito deve rendere comunque.
    E poi c’è la guerra. Le armi moderne usano sostanze come l’uranio impoverito o il tungsteno che esplodono generando temperature di migliaia di gradi e, così facendo, fanno vaporizzare il bersaglio. Bastano pochi secondi a contatto con l’aria per far ricondensare quella sorta di vapore sotto forma di particelle finissime, con tutte le conseguenze che ho descritto. Anche qui c’è un’aggravante: quelle polveri non sono degradabili dalla natura e, per questo, sono in pratica eterne. Il che significa che, una volta prodotte, non si eliminano più e chi ha sporcato l’ambiente non sarà in grado di pulire.
    L’indistruttibile arma della conoscenza
    Ecco, senza aggiungere altro: e altro ci sarebbe, perché la nostra scoperta è imbarazzante e si reputa inopportuno che si sappia in giro.
    Ma per chi non condivida interessi non propriamente cristallini, per chi si renda conto di come un essere che distrugge il proprio habitat sia destinato all’estinzione, per chi è disposto al “sacrificio” di qualche modifica ad abitudini incompatibili con l’ambiente delle quali i nostri figli ci chiederanno inevitabilmente conto, per chi, insomma, ragioni in scienza e coscienza, come dicono i medici, non è più tempo di trastullarsi. La prima cosa da fare è liberarci dell’ignoranza, questa specie di luce nera così abilmente utilizzata per nasconderci una realtà che sarà sì poco gradevole, ma che è quella con cui ci stiamo per forza confrontando, magari all’insaputa di molti. E la cultura, l’arma più potente di cui disponiamo, costa pochissimo.


    Cordialmente
    Rosario Muto
     
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